UN UOMO, LE SUE MORBIDE CARNI E LA DIPENDENZA DALLA “FARINA” - MARCO RAMASSOTTO

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO È FORTEMENTE SCONSIGLIATO AI MINORI DI ANNI 18 E ALLE PERSONE IMPRESSIONABILI A CAUSA DEI CONTENUTI ESPLICITI.

Ho attratto la vostra attenzione? Sì? Bene, iniziamo proprio da qui.

Iniziamo da quei messaggi utilizzati per catturare occhi e cervelli dei consumatori, con lo scopo di magnificare caratteristiche dei prodotti che con l’origine, il contenuto, la qualità e gli aspetti nutrizionali degli stessi hanno poco a che fare. Troppo poco.


Siamo umani, siamo emotivi, siamo insicuri (tutti a modo nostro, per un motivo o per l’altro), abbiamo bisogno di essere sedotti ma anche di conforto, specie se si tratta di qualcosa che dobbiamo ingerire o dare ai nostri figli. Molti maestri di un certo tipo di marketing lo sanno e fanno leva su quest’aspetto per rassicurarci, facendoci accomodare su un letto di rose alle quali sono state rimosse le spine, una a una, minuziosamente. Mmmhhh quanto è comodo e profumato, accogliente e tranquillizzante questo floreale giaciglio, ma… Perché un MA c’è, eccome se c’è: persi nei nostri sogni di consumatori che si sentono al sicuro, disimpariamo progressivamente che le rose le spine le devono avere per essere definite tali.

Moderni Ulisse che navigano tra banchi dei mercati o scaffali della grande distribuzione, cullati dal dolce canto delle sirene in forma di confezioni, non solo scordiamo che una rosa priva di aculei dovrebbe insospettirci, ma non ragioniamo sul fatto che una rosa è diversa da una margherita, da un garofano, da un tulipano, ha odore, finalità, significati, intima essenza differenti.

Quando ho incontrato Marco Ramassotto, cui è dedicato questo mio scritto, mi sono presentata con il blocco degli appunti le cui pagine risplendevano di virginale candore. 

Istintivamente non ho preparato domande: conoscevo già il mio interlocutore e presentivo che la nostra non sarebbe stata un’intervista, ma un dialogo, una chiacchierata costruttiva da affrontare con spontaneità, permettendo a essa di seguire il corso naturale che ci ha portati a confrontarci su argomenti che hanno un profondo legame con il cibo.

Allo stesso modo, quello che sto scrivendo non è uno strutturato e pianificato susseguirsi di argomenti: nasce da ricordi di parole, stimoli ed emozioni che si concatenano e generano l’uno dopo l’altro e l’uno con l’altro, seguendo il principio della vita.


Marco, assieme al padre Oreste che ne è titolare, conduce dell’AGRI MACELLERIA RAMASSOTTO di Piossasco (TO), avviata nel 1982 dal padre ma che affonda le proprie radici nell’attività di famiglia nata nel primo ventennio del ‘900. Qui sono allevati circa cento tra bovini e suini ed è offerta carne seguita e sorvegliata sin dal seme che genera ciò che gli animali mangiano. Quando si dice filiera controllata e lo si fa a ragion veduta.


Non di sola macelleria si occupa Marco. Assieme a Lorenzo Cussino, Mattia Giardini, Alberto Iossetti e L’Agraria snc, ha fondato VIVA: LA NOSTRA FARINA È, con sede a Faule (CN). Un’azienda che produce farine vere sino al midollo e che, anche in questo caso, si preoccupa di offrire ai consumatori un prodotto creato e curato in tutte le fasi della sua vita, a partire dalla semina, passando per la produzione e la conservazione, con lo scopo di realizzare farina di altissima qualità, perché anche la materia prima migliore, lavorata male o con l’intento di conferirle prestazioni sconosciute alla natura, diventa pessima e potenzialmente dannosa.

Come può una farina essere viva? È più semplice di quanto si possa pensare: essa nasce da un elemento che è stato selezionato, seminato, curato, è cresciuto come la sua natura l’ha portato a fare, è stato raccolto e lavorato. Pensate a quante energie spirituali, mentali e fisiche sono state necessarie per fare tutto ciò. Pensate al miracolo insito nello sviluppo di un seme che germoglia, si consolida, occupa spazio, cambia aspetto, diventa alimento e, una volta unito ad altri, un piatto. Questa è vita a livello concettuale e fisico.

Una farina è viva anche perché acquisisce la facoltà di sostenere la verità: riflettiamo anche su questo. Non ho detto parliamo apposta. Parlare può essere generico. Parlando si può dire e, per uno straordinario paradosso, non dire, omettere.

Con Marco ho discusso di quanti prodotti ci ammaliano con presentazioni che toccano le corde dell’emotività, ma non raccontano nulla di cosa c’è al loro interno e, restando in tema di paradossi, esaltano ciò che non c’è. Ci siamo chiesti perché un produttore sia obbligato a dichiarare che in una salsiccia non è presente glutine, se “secondo natura” in un alimento di questo tipo tale sostanza non dovrebbe trovarsi.

Siamo come la pallina di un flipper: veniamo lanciati nel favoloso mondo dell’informazione legata al cibo con una forza cinetica straordinaria (il messaggio che ci seduce) per poi rimbalzare tra molteplici stimoli, spesso contraddittori, che altri risultati non danno se non cinetosi culturale, disorientamento, false certezze

Dobbiamo essere curiosi, approfondire, mettere in dubbio, chiedere, applicare il metodo scientifico all’informazione. Dobbiamo usare il web a vostro favore. Per fare un esempio, se i motori di ricerca, alla vista della parola glutine, scatenano risultati che attestano la dannosità di questa sostanza di là dall’essere affetti da celiachia, non dovremmo tanto preoccuparci di verificare se ciò sia vero, quanto di andare a cercare fonti che dicono il contrario, per poterle confrontare con le prime e farci, possibilmente, un’idea nostra, fondata su una sana eterogeneità di opinioni, studi avvalorati e prove credibili. E, a monte, dobbiamo verificare le fonti stesse, informandoci riguardo esse. In questo modo ognuno avrà la possibilità di sviluppare un’opinione personale e conseguentemente di fare scelte LIBERE a tavola.

Rispettando noi stessi nel ruolo di consumatori, ponendo l’accento sulla responsabilità che abbiamo nel nutrirci nel miglior modo possibile (se abbiamo il privilegio di poterlo fare), riappropriandoci della nostra intelligenza, del nostro senso critico e della possibilità di scegliere, torneremo a dare valore alla vita che possiamo trovare negli alimenti buoni, seri, eticamente e commercialmente onesti.

Come si manifesta l’onestà di Marco Ramassotto e dei soci in fatto di farine? Non solo così, certo, ma anche aprendo un vasetto di Pandora mica da ridere e scatenando non mali che affliggono il mondo, ma che la sottanella a certe strutture di mercato un po’ la fanno tremare. Marco e i suoi soci fanno pagare la farina integrale meno di quelle più raffinate, sulla base di un principio così elementare (e così dimenticato), da farci esclamare eureka: costa meno produrla!

Sono sostenitrice dell’idea che, specie se si tratta di rapporti umani, non esiste un’unica verità, ma tante quanti sono i punti di vista degli attori e tutte valide, almeno sul piano ideale, se nascono dall’esperienza diretta. In altri casi, invece, di verità ne esiste solo una. La farina integrale, ad esempio, è vera se ottenuta sfruttando interamente il chicco di grano e non addizionando farina bianca con crusca. Questo in linea di principio e basandosi su presupposti logici, perché a livello legislativo entrambi i prodotti possono essere definiti integrali. Allora, come fare? Prima di tutto riappropriandosi del valore e del significato delle parole, conseguentemente di quelli degli alimenti.

INTEGRALE vuol dire completo, intero, riguarda il tutto. Quindi una farina integrale deve originare dal chicco di grano intero che esternamente non è bianco. Quindi la farina integrale non può essere bianca con alcuni frammenti marroncini ma deve avere un colore e una consistenza differenti da quelli della farina 00. Quindi la farina bianca alla quale è stata aggiunta crusca non può essere farina integrale vera. Il cerchio si chiude, il mitico uroboro si riappropria della simbologia che gli è propria: la natura ciclica delle cose, in questo caso della logica.


E in fatto di carne? Quando la carne è sana non solo dal punto di vista nutrizionale? Lo è quando chi la produce e vende non si limita a fare questo, ma si preoccupa di riconoscere un immenso valore etico, ideologico e morale al sacrificio di un animale, cerca di educare i consumatori a valorizzare un tale patrimonio culturalmente delicatissimo sfruttando tutti tagli, compreso il quinto quarto e diventa fautore di allevamenti privi di crudeltà perché gli animali non sono prodotti. Lo è quando un macellaio riconosce che sapere tutto di tagli e utilizzi in cucina, ignorando come sia stato trattato l’animale, cosa abbia e non abbia mangiato, dove e come abbia vissuto, lancia un messaggio frammentato, inconcludente e anti culturale.

Non utilizzare tutte le parti di un animale aggrava lo spreco alimentare che ogni giorno affligge l’intero pianeta. È una situazione trasversale a tutti i cibi riguardando anche le verdure. Pensate a un carciofo. Solitamente circa il 60% dell’ortaggio finisce tra i rifiuti perché siamo abituati a considerare foglie esterne e gambi come scarti. Eppure sono elementi edibili, hanno sapore e caratteristiche che li rendono utilizzabili in numerose ricette. Basta avere voglia di trovare il tempo per incrementare la sostenibilità di una materia prima del genere. Perché sì, anche un carciofo, così come un finocchio o un rapanello, possono essere poco sostenibili dal punto di vista ambientale, energetico, culturale e morale, esattamente come la carne e indipendentemente da numeri e percentuali: un concetto è un concetto.

Ho parlato di trovare il tempo. Il tempo è tiranno (mai detto popolare fu più attagliato). Lo è perché governa dispoticamente le nostre esistenze diventando in molti casi una giustificazione autoassolutoria per non fare cose che migliorerebbero la condizione del singolo e della collettività. Estroiettando le nostre responsabilità, attribuendole al tempo (che è nostro, quindi il tempo siamo noi), restiamo immobili, ci lasciamo governare, appunto, mentre quintali di alimenti perdono importanza, sono consumati e valorizzati in base ai minuti che richiedono per essere preparati. Da preziosa risorsa divengono prodotti, da prodotti rifiuti, da rifuiti a elementi che divorano energia per essere smaltiti e inghiottono tradizioni culinarie, quindi storia, quindi identità (basta pensare agli arrosti e ai brasati tipici della cucina piemontese, legati a lunghe cotture e preparati con tagli ricavati dal quarto anteriore dei bovini, sempre meno richiesto).

Marco, pur non essendo un nostalgico sostenitore del come una volta, è convinto che se agli inizi del secolo scorso l’alta qualità degli alimenti rappresentava una risorsa importantissima dalla quale ricavare la massima resa possibile, oggi il rendimento di un cibo è congiunto alla scarsa qualità legata a doppio filo ai bassi costi. Bassi costi che impediscono ai produttori di lavorare in qualità e di veder valorizzato il lavoro che fanno e ai consumatori di mangiare bene: un loop vero e proprio.


Mettere in dubbio le certezze che crediamo di avere in fatto di alimenti (e non), guardando le cose da punti di vista che le possono compromettere e riconoscere a noi stessi la facoltà di scegliere, è la strada per ritrovare la forza del concetto di valore. Perché ogni cosa ne ha uno, grande o piccolo, positivo o negativo. Ogni cibo che portiamo nelle nostre case lo ha, perché acquistato con i soldi guadagnati con il nostro lavoro che si traduce nel nostro tempo. Svalorizzare il cibo significa svalorizzare il nostro tempo, quindi noi stessi.

Mangiare bene equivale a nutrire correttamente il nostro corpo e non solo. Indagare su ciò che mangiamo, cercare di capire, confrontare, istruirsi, chiedere, essere lucidamente critici aiuta a alimentare la nostra mente e la nostra anima attraverso la conoscenza. La stessa conoscenza che si acquisisce con l’esperienza, la stessa esperienza che genera emozioni.

Marco Ramassotto è provocatorio anche in questo: fa assaggiare alle persone la sua farina, regalando sensazioni, invitando a sentire odori, saggiare consistenze, scoprire sapori perché è diverso dire di cosa sa una farina dal farla assaggiare.

L’ho fatto anch’io: ho assaggiato la farina integrale VIVA LA NOSTRA FARINA È. Sa di pane caldo, sprigiona un delicato e accogliente profumo che ricorda il legno arso, vela il palato con una consistenza simile a quella del burro per poi sciogliersi, lasciando che i frammenti più grandi del chicco di grano solletichino il palato.

Non mi sono limitata ad assaggiarla e odorarla, l’ho toccata prima di lavorarla per realizzare tagliatelle fresche. È dolcemente ruvida, mai uguale a se stessa, ogni tocco è differente dall’altro, è una sorpresa sensoriale continua, è sensuale in maniera genuina, spontanea.

L’esperienza di un alimento è fondamentale per Marco. Le persone, per loro natura, ne hanno bisogno, la chiedono per capire meglio ciò che un produttore onesto vuole dire, la accolgono perché è esaltante, inebriante, fa dialogare con se stessi, scoprire la profondità delle proprie sensazioni, genera e consolida il ricordo. L’esperienza permette di andare oltre l’impressione subitanea, di rompere il velo della superficie, come quando si conosce meglio una persona che si era giudicata nel modo sbagliato o troppo superficialmente e si resta piacevolmente stupiti sia riguardo alle cose che questa ha da dire e dare, sia per ciò che sa trasmettere e suscitare.

Alimenti ed esseri umani, quindi, non differiscono in tal senso: sono entrambi potenziali generatori naturali di emozioni se solo si esperiscono. Quindi perché fermarsi all’estetica emotiva dei cibi, quella esaltata da certo materiale promozionale e certe confezioni, quando è l’etichetta l’anima di un prodotto? E perché accontentarsi di sapere quali elementi (che spesso fanno leva su paure indotte) non sono contenuti in un cibo quando si dovrebbe pretendere di sapere anche TUTTO quanto è in esso? Perché troppo spesso di ciò che mangiamo ci sono raccontate cose che con l’interazione che il cibo ha con il nostro corpo, danni compresi, non siamo messi al corrente? Un cibo non è solo prodotto finito, è metodologia, tracciatura geografica delle sedi (TUTTE!) di coltivazione o allevamento, produzione, trasformazione, imballaggio, stoccaggio ed è trasporto.

Secondo Marco, questi interrogativi (capaci di generare una non lieve frustrazione N.d.A.), nascono dal fatto che la parola emozione è divenuta sinonimo di realtà. Parlare ai consumatori colpendoli dal punto di vista sentimentale non basta quando c’è sostanza del prodotto, figuriamoci quando questa manca del tutto.

L’etica di un produttore non può essere rateizzata, differita o settorializzata: c’è o non c’è. O riguarda il tutto o è fumo negli occhi. Frammentare le informazioni, celare, omettere, o spostare l’attenzione non è informare. Un alimento non è soltanto SI o NO, è anche PERCHÉ, COME, QUANDO e DOVE. Tutto ciò che mangiamo deve essere fatto bene dall’inizio e chi produce deve essere consapevole che sta realizzando un valore, non un elemento privo di spessore se non quello economico.

L’Italia, con il suo patrimonio agricolo e ittico, può rappresentare un luogo di fondamentale importanza per una rivoluzione culturale che potrebbe portarci non tanto a conoscere ma a ri-conoscere principi, concetti e atteggiamenti mentali legati al consumo che in un certo momento della nostra storia sono stati dislocati, perduti o confusi.

La conversazione con Marco è durata quasi tre ore che non ho sentito passare. Ho parlato con una persona appssionata, profondamente riflessiva, capace di far sue le mie domande, riflettendo su esse e dimostrando che c’è differenza tra parlarsi addosso e rispondere, esponendo i propri punti di vista e coinvolgendo l’interlocutore lasciandogli spazio.

Il mio blocco degli appunti si è riempito una volta tornata a casa, quando idee, pensieri, riflessioni e sensazioni erano ancora vivi nel loro celebrare l’importanza della sana comunicazione. Una comunicazione che è diventata tangibile, o meglio, mangiabile, quando dalla scrivania mi sono spostata in cucina per preparare tagliatelle integrali di sole acqua e farina che ho condito con una salsa a base di zucca e nocciole.

Dopo averla assaggiata e toccata, quindi, la farina integrale VIVA: LA NOSTRA FARINA È l’ho trasformata e mangiata, entrando con essa in una comunione totalizzante.

Tutto ciò è comunicazione commestibile multisensoriale: non chiedo di meglio.

Vi lascio riportando un significativo testo tratto dal sito web di VIVA: LA NOSTRA FARINA È.

“Siamo un gruppo di Amici, innanzitutto, ognuno con le proprie competenze ed esperienze nel mondo agroalimentare.
Ci piace il CIBO, molto meno il FOOD; 
Ci appassionano le storie VERE, poco i canovacci da copertina;
Amiamo la nostra TERRA e in essa ci riconosciamo come contadinim mugnai e panificatori.
Ci piace percorrere le strade con i tempi giusti, senza scorciatoie rispettando la Nostra Terra, senza mai chiederle più di quello che ci possa offrire e impegnadoci a restituire almeno ciò che ci ha donato.
Tutto questo per potervi dare Viva: la Nostra Farina.”

INFORMAZIONI E CONTATTI

AGRI MACELLERIA RAMASSOTTO
Cosa si può comprare: carne bovina di fassone piemontese, carne suina, salumi, pronti a cuocere, pane a lievitazione naturale
Regione Trapunè, 1 – 10045, Piossasco (TO)
Tel. +39 011 90 66 936
Web: http://www.ramassotto.it/ 
Facebook: https://www.facebook.com/Agri-Macelleria-Ramassotto-213356322013798/?pnref=lhc 
E-mail: info@ramassotto.it 

VIVA LA NOSTRA FARINA È:
Cosa si può comprare: farina di grano tenero, farina per frolla e grissini, farina integrale, farina per pizza, farina di segale e farina di farro monococco
Via Casana, 8 – 12030 Faule (CN)
Tel. +39 011 974110
Web: http://www.vivalafarina.it/ 
Facobook: https://www.facebook.com/vivalanostrafarina/?fref=ts
E-mail: info@vivalafarina.it




Commenti

Anastasia ha detto…
Leggendo i primi capoversi ho riso di gusto, penso tu sappia perchè!
Ci sono scritte le stesse identiche cose che ti ho detto poco fa!
D'altronde la visione è comune e non poteva essere altrimenti...
Credo che sia importantissimo riportare all'attenzione dei consumatori ciò che hai egregiamente illustrato in questo tuo post!
L'emozione non basta, o meglio da sola non porta alla consapevolezza.
Concordo come sai su tutta la linea, di pensiero e di azione.
Aggiungo solo un grandissimo immenso Good Luck cara Paola!
Un grande abbraccio a presto
Paola "Slelly" Uberti ha detto…
Any, come ti ho detto durante la nostra conversazione, tu per me sei motivazione e autostima in forma umana.
Un'ora e undici minuti di chiacchierata che mi sono parsi cinque.
Tutto ciò che dici di me, e che mi dà gioia, è ricambiato.
Credo che presto dedicherò una ricetta a un concetto che mi sta a cuore e occupa spesso i miei pensieri: incontrare persone speciali che senza bisogno di strutture o sostegni in forma di assidua frequentazione, diventano amicizie importanti.
Buona fortuna anche a te preziosa persona.

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